Quel che poteva succedere a Roma, questo quindici Ottobre, era la continuazione di un movimento che si è diramato un po’ in tutto il mondo, dagli indignatos Spagnoli ( http://video.excite.it/la-protesta-degli-indignatos-occupa-puerta-del-sol-V74998.html ), al movimento Occupy Wall Street in America.
Un movimento che si caratterizza per la lotta alla crisi e, per meglio dire, alla sua assurda gestione. Al sempre più ampio distanziarsi della forbice tra ricchi e poveri, al perverso foraggiamento delle banche ed ai tagli – nel caso dell’Italia in specie – ai fondi per la scuola, la ricerca e la cultura… Ma non solo.
Un movimento di giovani e meno giovani, che lamenta dell’indifferenza della politica nei loro riguardi, dell’incompetenza degli apparati istituzionali a creare una qualsivoglia certezza, una base d’appoggio per potersi progettare un futuro. In poche parole, un movimento caratterizzato dalla critica ad un sistema che forse non è destinato a fallire, ma certamente è destinato a sacrificare le speranze ed i sogni della maggior parte della popolazione alla sopravvivenza di una minoranza arrogante, pretenziosa ed autoreferenziale nel lusso e nella posizione di privilegio che si è costruita addosso.
Negli slogan, nei discorsi, nelle assemblee, nell’organizzazione degli indignatos non c’è solo una critica al sistema odierno, che non ha saputo vedere la crisi come un campanello d’allarme, come un segnale per invertire la rotta ma che, anzi, l’ha cavalcata a dispetto delle speranze delle giovani generazioni (e non solo) e delle risorse del pianeta; c’è anche un valore propositivo, lo sforzo per far passare il messaggio che se gli apparati vampireschi, stantii e ormai vecchi (nel caso dell’Italia direi tombali) non sono più adeguati ad organizzare la società, allora dobbiamo farlo noi. Nei ritrovi degli indignatos si ritrova la creatività dell’autogestione, la solidarietà di chi ha uno scopo comune, e la comune filosofia della non violenza.
Sì, perché basta guardare un qualsivoglia video sulle piazze spagnole riempite dagli indignatos, per accorgersene: tutti stanno seduti, o parlano della loro organizzazione resistendo alle molteplici cariche della polizia, che s’elargisce nel vano tentativo di disperdere quella critica al potere: il giorno dopo, se non un’ora dopo, tornano aumentati nel numero e nell’indignazione. ( http://vimeo.com/24395865 )
Del resto, già nell’etimologia della parola “Resistenza” si trova il senso di un’opposizione del genere: non cedere all’urto, fronteggiare, reggere la spinta di altri corpi. E di altre cariche. Ma non solo, di altri attacchi all’autogestione, alle speranze, ai sogni… ci vuole probabilmente molto più coraggio a resistere che non ad attaccare. Resistere all’arroganza, all’abuso di potere, all’ignoranza, e alla paura. E forse, piano piano, sottrarsi alle regole imputridite di un sistema immorale, per crearne altre, derivanti da quel medesimo sottrarsi, da quel medesimo resistere.
Tutto questo sottrarsi, tutta la non violenza, tutta la capacità creativa di un movimento del genere, a Roma (ma non nell’intera Italia!) è stato macchiato e rovinato da una raffica di sampietrini, di bombe carta, di incendi più o meno casuali.
Non amo parlare di condanna alla violenza. Sono cose forse ovvie, sicuramente ripetute, e che sembrano una premessa obbligata ad ogni discorso su una manifestazione rovinata da atti singoli, più o meno organizzati, ma comunque al di là del senso e degli scopi che la manifestazione ed il movimento custodivano ed elargivano. Ma certamente rovesciare cassonetti, gettare estintori e bruciare macchine, probabilmente di gente che avrebbe gli stessi motivi per aderire al movimento, non solo è stupido e controproducente, ma di certo non fa parte del significato di “ribellione” insita nel mio dizionario mentale. Si potrà dire, e sono anche d’accordo, che la violenza nasce da altra violenza, seppure in altre forme. Che, come ripeteva Vanzetti la violenza non è solo quella diretta, ma anche quella più nascosta e subdola: la violenza insita nella costrizione alla sottomissione per un pezzo di pane, ad un lavoro precario e mal voluto per una stabilità al momento prettamente utopica, a quella covata dalla tirannia della maggioranza, a quella di un governo che si regge in piedi solo per salvare se stesso…
“Se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”.
E lo sono di certo, violenti figli della violenza. Stupidi figli della stupidità. Ma non è una buona ragione per seguirli, né per farsi rovinare agli occhi della società da gente che, per lo più, dove altri cercano autogestione, resistenza e speranza, cerca divertimento, ira cieca e visibilità mediatica.
Visibilità mediatica che, peraltro, oltre a rovinare il resto della manifestazione, concede al sistema istituzionale la scusa per irrigidire le leggi sociali, limitare gli spazi di libera espressione e di dissenso, e onorare sempre e comunque la polizia (nelle parole ma non nei fatti) che, se è costituita da altri poveracci (come noi tutti!) soggetti agli stessi abusi politici, non è certo nota per la sua imparzialità. Perché in quella piazza ci sono stati atteggiamenti non eccessivi, come in altri casi (Genova basti ad esempio), ma non è mancata qualche aggressione a coloro che, in mezzo al delirio del blocco nero a San Giovanni, cercavano solamente, a braccia alzate o conserte, di fermare i caschi neri richiamandosi alla non violenza e all’indignazione. (basti questo: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/10/15/roma-la-manganellata/164140/
Così, con qualche pillola di retorica borghese, di disinformazione e di fede al potere, si son tirate perfino fuori le leggi fascistoidi degli anni di piombo, ad esempio la Reale – e da Di Pietro, tanto per far intendere che ogni occasione è buona anche per loro – che permetteva in sostanza l’uso di armi da fuoco in pubblico per le forze dell’ordine, cautela preventiva per sospetta flagranza di reato se insito il pericolo di fuga, e divieto di caschi e simili…
Basta poco, per creare un’onda che va nella direzione opposta a quella che il movimento cercava di trovare. Del resto, l’irrigidirsi delle possibilità del dissenso, non sarebbero altro che un invito a nozze a perpetuare la medesima violenza, in un circolo vizioso che in Italia dovremmo conoscere abbastanza bene.
Ce n’è sarebbe da dire su queste onde di cause ed effetto… anche l’ormai classico inveire contro i famosi “anarchici insurrezionalisti “, che paiono aver preso il posto dei comunisti o dei facinorosi della sinistra radicale (laddove non siano vestiti a toga). Anarchici che, se ancor ci sono, spero non dimentichino mai quel loro principio di responsabilità individuale – poco avvezzo a vestirsi di caschi neri e mimetizzarsi in una folla quando devastano negozi e statue – e quel motto per cui, parafrasando Malatesta, ci si potrebbe chiedere: se il fine giustifica i mezzi, chi giustifica il fine?
A queste onde, preferisco ancora lo scoglio che rimane fermo, a fronteggiare la furia delle maree, a resistere, all’ipocrisia del sistema, agli abusi del potere, e all’ignoranza della violenza casuale. Preferisco ancora quello scoglio che si ritrae dalle medesime sozzerie che sporcano la politica, creandone un’altra, più viva e più vera, rigenerata dal suo stesso sottrarsi.
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martedì 18 ottobre 2011
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