Studiare ed Apprendere
Per iniziare il nostro “viaggio” nel mondo dell’apprendimento è forse il caso di partire dalle basi, dai termini, dall’etimologia.
Cosa significa apprendere?
Vorrei quindi far qui un’analisi, o meglio, un raffronto. Mettere in scena un incontro tra due termini. Apprendere e studiare.
Studiare ed apprendere: sono parole interessanti. Così simili e così diverse.
“I piaceri che derivano dal contemplare e dall’apprendere fanno sì che si contempli e si apprenda ancor di più”, Aristotele
‘Studiare’ significa qualcosa come “applicare il proprio ingegno per imparare qualcosa col sussidio di libri, di maestri, di esercizi e simili”, oppure “riferito al proprio comportamento, controllare con molta attenzione o anche con troppa ricercatezza”. Deriva da Studium, stud-ère, sta per sollecitare, sforzarsi di fare, esaminare con diligenza, ingegnarsi. Tant’è che in spagnolo suona più direttamente come “esforzarse” o “examinar”. La cosa però interessante è che i contrari di “studiare” suonano come: concretizzare, attuare, realizzare, eseguire, mettere in pratica…
“Apprendere” deriva invece da “Apprehèndere”, e prehèndere, quindi afferrare, prendere, impossesarsi. Afferrare con la mente. E ancora conquistare, digerire, predicare… ruota intorno al francese apprendre, il learning inglese (get to know) e amaestrado e aprender spagnolo. Il contrario, molto più direttamente, suona come ignorare, disimparare, disassuefarsi (sì, apprendere e imparare sono gesti assuefacenti, una droga)… Notate qualcosa di interessante? Io sì…
In effetti è proprio guardando i contrari di “studiare” che si capisce meglio cosa significa. Non mettere in pratica, non realizzare, cercare un’astrazione nello sforzo. Astrazione che, in modo singolare, si attua generalmente in alcuni luoghi chiamati scuole (scholè) che indicano etimologicamente ozio, riposarsi, aver tempo di occuparsi di qualcosa per divertimento. Ma il divertimento in genere non è uno sforzo, un combattere, un esaminare… Più direttamente trovo interessante che la definizione in questione dia ampi suggerimenti di cosa sia diventato lo studio istituzionale: uno sforzo per prepararsi a… superare degli esami.
La scuola non può che preparare ad altre scuole, a superare altri test. Lungi da me pensare che la scuola e lo studio debbano fornire solo delle skills con le quali svendersi più facilmente alle aziende. L’una è una prassi troppo italiota, l’altra troppo americana. Ma sarebbe bello se si riuscisse a sostituire spesso la parola “studiare” con la parola “apprendere”. V’è dentro più mistero, più fascino, più gestualità e più pratica. Forse anche una maggior libertà: un’approssimarsi alla scoperta della conoscenza senza il peso e la costrizione della sedia e del tavolino. Senza l’indottrinamento scolastico, perché posso sforzarmi di pensare come qualcun altro, come il maestro mi insegna, ma non posso conquistare, drogarmi di qualcosa per conto terzi.
Credo che nella parola “apprendere” ci sia anche il piacere che ne deriva o, semplicemente, il piacere di fare qualcosa che ci intriga e che, quindi, ci fa apprendere… Per esempio, nel caso delle lingue, lo spiega bene lei:
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Si studia la tabellina ma si apprende a fare i calcoli. Si studia la forma della bici ma si impara, si apprende ad andare in bicicletta. Si studia la grammatica ma si imparaapprende a comunicare in un’altra lingua. Sarebbe intrigante trovar una coerenza tra il sapere ed il saper fare, e sto ormai convincendomi che l’indipendenza, la stravaganza ed il mistero contenuti nella parola “apprendimento” possano esserne una fonte.
“Dev’essere proposito eguale dell’insegnante e del discepolo: che uno voglia giovare e l’altro apprendere”, Seneca
Aggiungo una storiella sull’apprendimento ed il cosidetto “fallimento”
Una volta, non importa quale volta, o quanto tempo fa, c’erano due bambini che volevano imparare a sciare. Il loro padre era un fisico, ed era anche un discreto sciatore, così fu ben felice di aiutarli in quella loro scelta, fu ben contento di poter soddisfare quella loro voglia. Li portò su una bella montagna, fece loro mettere gli sci e, mostrando loro coloro che scendevano dal declino, gli spiegò le astratte leggi fisiche che regolavano la discesa, l’attrito, il piano inclinato…. la forza di gravità…. E dunque provarono a salire un poco, ed a scendere con gli sci. Entrambi caddero. Ma era la prima volta: era normale.
Entrambi pensarono di non aver ben inteso la lezione del padre, e si rimisero in posa per aspettare una replica che non tardò ad arrivare. Il padre ritentò la via dell’astrazione, e mostrò loro sul suo diario dei calcoli, dei disegni, per rendergli più facile ed accessibile la comprensione. Quindi ritentarono, e caddero pochi secondi dopo: ma non erano certo degli esperti, solo incominciarono a lamentarsi di tutta quella teoria. Uno di loro, con un faccino sorridente ma un poco stizzito (sì, era tanto espressivo da riuscire ad unire stizza e diletto) commentò così le congetture del padre “troppa trama!”.
Non che le trovasse inutili o pedanti, ma non erano adatte al contesto. Il padre allora si arrese, e mostrò semplicemente loro i movimenti da fare, come tenere le gambe (e quindi gli sci) e le braccia (e quindi le racchette). Il terzo ed il quarto tentativo andarono decisamente meglio, seppure i due bimbi ruzzolarono entrambi. Solo, dopo qualche tempo, uno dei due decise che, basta, non ne voleva più sapere. Evidentemente doveva essere incapace di sciare: inadatto a farlo. Per questo, non imparò più davvero. Il secondo bambino, fece fatica, ci spese del tempo ma, finalmente riuscì ad imparare, ed in futuro divenne anche bravo, sicuramente più del padre. Non è che fosse più “adatto” o talentuoso del fratello, no. C’era solo una differenza tra i due. Il primo aveva preso le sue cadute, i suoi fallimenti, come uno stop, come un segnale di un’incapacità congenita. Il secondo, aveva preso le sue cadute come qualcosa da cui imparare: aveva capito che non doveva muoversi in un certo modo, stare in una certa posizione, e simili. Aveva capito che non esistono fallimenti, ma solo esperienze.
“Molti fallimenti nella vita si segnalano da parte di quegli uomini che non realizzano quanto siano vicini al successo nel momento in cui decidono di arrendersi”, Thomas Edison
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